THE CONCEPT
Who, Why, where . . .
… le nostre creazioni saranno quanto mai provvisorie, fatte per
servire una volta soltanto. Se saranno esseri umani, daremo
loro, per esempio, solo una metà del viso, una sola mano, una
gamba, quella cioè di cui avranno bisogno nella loro parte.
Sarebbe una pedanteria preoccuparsi della seconda gamba,
che non rientra nel giuoco. Dal di dietro potrebbero essere semplicemente cuciti con una tela, oppure imbiancati.
[…] Il Demiurgo si innamorò di materiali sperimentati,
perfezionati e complessi; noi daremo la preferenza alla
paccottiglia. E questo semplicemente perché ci affascina,
ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del
materiale. Capite – domandava mio padre – il senso
profondo di questa debolezza, di questa passione per le
veline variopinte, per la cartapesta, per la vernice, la
stoppa e la segatura? Questo – proseguiva con un sorriso
doloroso, – è il nostro amore per la materia come tale,
per la sua pelosità e porosità, per la sua unica, mistica
consistenza. Il Demiurgo, grande maestro e artista, la
rende invisibile, la fa sparire dietro il gioco della vita;
noi, invece, amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza,
la sua maldestra rozzezza. […]
- In una parola, – concludeva mio padre, – noi vogliamo
creare una seconda volta l’uomo, a immagine e somiglianza
di un manichino.
--Jakub
GENERATIO AEQUIVOCA
Ancora nel tardo Ottocento, quando Pasteur fissa un dogma scientifico
incontrovertibile, con il termine generatio aequivoca viene indicato il
fenomeno della “generazione spontanea” del mondo animale. Entità
biologicamente incerte reggono i confini di questo regno, dove
l’abietto incrocia il sublime: esseri dai colori sgargianti e dalle forme
impossibili, come il miserabile concime che dà loro coltura.
Un microscopico universo in cui i nessi della derivazione causale non hanno
campo, un miracolo infimo in cui l’assenza di Dio e delle sue leggi si
tramuta in proliferazione incontrollata di forme organiche, libere dalle
costrizioni della ragione e della teleologia. Di questa materia intimamente
rivoluzionaria, atea, anarchica, eppure in grado di organizzarsi ed
evolversi, son fatti i tanti automi che d’Holbac e Condillac e La Mettrie
hanno sognato.
Proprio quando Spallanzani confuta magistralmente la possibilità
della generazione spontanea, von Kempelen costruisce il più famoso e
falso dei meccanismi intelligenti: Il turco giocatore di scacchi, che al
suo interno celava abilmente un nano.
Insomma, dalla metà del Settecento, una genìa multiforme e varia
inquieta e diverte i confini dell’Occidente. Sono automi, pupazzi,
marionette, burattini, declinazioni infinite di stoffe e pieghi di carta,
legni, molle, giunti vitrei e fantasiosi che s’insinuano ai margini della
cultura e della vita e vanno ad occupare il terreno provvisoriamente
vuoto ed ontologicamente ambiguo che l’infinita popolazione della
“generazione spontanea”, ben più reale ma non meno bizzarra, ha
lasciato libero, per sottomettersi anch’essa ad un principio di ragione
deludente ed umano, cui pure per secoli aveva strenuamente resistito.
Di converso, quello spazio inizia a proliferare di inattese creature,
forme provvisorie che danzano su cellule di tempo impazzite, magie da baraccone, trucchi, giocolerie da saltimbanchi arrugginiti.
Sono doppi, ombre o assenze di ombre, degradazioni, limiti
d’esistenza e frantumi di vita, tuttavia ricomposti in un assemblaggio
provvisorio e spesso divertito, che sa di paradosso.
Bolle di senso che scoppiano rapide, giusto il tempo di far assaporare
allo spettatore una fragranza d’imprevisto. Circoscrivono quel che
resta di un territorio di libertà estrema, per secoli sottratto al dominio
dell’intelletto e si propongono in irriducibile opposizione a tutto ciò
che domesticamente siamo avvezzi a tener sotto il controllo dei sensi.
O, che è lo stesso, nella ragionevolezza dei sensi. Già, perché è la
sensazione ad illuderci che quell’ombra abbia una sua vita, quel
manichino s’innamori, quell’osceno rocchetto si muova da sé. Kant e
Hume considereranno quindi aequivoca piuttosto la sensazione, che la
generazione spontanea. Non così Diderot, raffinato connoisseur di
attori e manichini. E dei loro capricci.
Niente più Paracelsi, col loro armamentario di alambicchi, fuochi e
ventri di cavallo, robaccia da medioevo romanticheggiante. Non è più questione di creare la vita, ma di organizzare la materia verso la sensibilità
e l’intelligenza. Ovvero, se l’intelligenza è limite, riscoprire
nell’inanimato il regno puro dell’innocenza e dell’espressività. Com’è
per von Kleist e le sue marionette, mentre Craig sognerà sulle rive del
Gange una “supermarionetta” salvifica, a rifondare il teatro privandolo
del deteriore e soggettivo elemento umano. Tra loro Schlemmer,
inevitabilmente vicino a Craig, camuffa da fantoccio i suoi attoridanzatori.
mentre intenerisce l’amore di Kokoschka per una bambola
con le fattezze di Alma Mahler.
Si consideri questa universale spinta alla vita, si veda l’infinita
prontezza, facilità ed esuberanza, con cui la volontà alla vita
urge impetuosamente all’esistenza, con milioni di forme, da per
tutto ed in ogni momento, mediante fecondazioni e germi, e, dove
questi mancano, mediante generatio aequivoca, afferrando ogni
occasione, impadronendosi bramosamente di ogni sostanza
capace di vita: e poi si getti di nuovo lo sguardo sul suo terribile
allarme e selvaggio tumulto, quando in una qualunque singola
manifestazione deve abbandonare l’esistenza ; specialmente
quando ciò avviene con chiara conscienza. È come se in questa
unica manifestazione il mondo intero debba essere annientato
per sempre…
Insisto su questo paragrafo: passata al vaglio di Schopenhauer, non è
la generazione spontanea a rivelarsi irrazionale, piuttosto è lo stesso
cieco principio della volontà a regolare l’intera serie delle sostanze
capaci di vita e del loro sviluppo. Dunque, invertendo i termini della
questione, non è più l’inanimato a farsi copia dell’animato, piuttosto
entrambi inseguono il gioco vano dell’esistenza. E nessun diavolo,
nessuno stregone regge più le fila di questo gioco.. Nessun bisogno
neppure di forme, seppur vagamente, antropomorfe: per Kafka,
l’indecente rivelazione avviene attraverso un rocchetto di filo (Il cruccio
del padre di famiglia) che ha l’impossibile nome di Odradek, e che
ha rotto in sé ogni principio di similitudine o verosimiglianza col
mondo razionale delle forme. A Kafka fa eco il suo alter-ego polacco, Bruno Schulz, autore di quel
trattato sui manichini che tanto ha influenzato Tadeusz Kantor, divenendo
un leitmotiv del suo teatro. Schulz produce una sorta di genealogia
al contrario, in cui non è la materia ad inseguire i principi gerarchici
della forma, ma l’esistenza organica a rinverdirsi nell’oceano di
possibilità inesplorate che l’inorganico offre alla mutevolezza. Jakub,
il padre del protagonista, si produce in continue parodie di metempsicosi,
ritrovandosi ora avvoltoio, ora scarafaggio, ora simulacro impagliato,
mentre il fratello di lui concluderà la sua esistenza trasformato
in tubo di gomma da clistere, delicatamente custodito dall’amata
consorte su un cuscino. Vita, comunque, in ogni sua degradata mani-
festazione. Vita svincolata dalla forma, come appunto le provvisorie
figure del programma rivoluzionario di Jakub:
… le nostre creazioni saranno quanto mai provvisorie, fatte per
servire una volta soltanto. Se saranno esseri umani, daremo
loro, per esempio, solo una metà del viso, una sola mano, una
gamba, quella cioè di cui avranno bisogno nella loro parte.
Sarebbe una pedanteria preoccuparsi della seconda gamba,
che non rientra nel giuoco. Dal di dietro potrebbero essere semplicemente cuciti con una tela, oppure imbiancati.
[…] Il Demiurgo si innamorò di materiali sperimentati,
perfezionati e complessi; noi daremo la preferenza alla
paccottiglia. E questo semplicemente perché ci affascina,
ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del
materiale. Capite – domandava mio padre – il senso
profondo di questa debolezza, di questa passione per le
veline variopinte, per la cartapesta, per la vernice, la
stoppa e la segatura? Questo – proseguiva con un sorriso
doloroso, – è il nostro amore per la materia come tale,
per la sua pelosità e porosità, per la sua unica, mistica
consistenza. Il Demiurgo, grande maestro e artista, la
rende invisibile, la fa sparire dietro il gioco della vita;
noi, invece, amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza,
la sua maldestra rozzezza. […]
- In una parola, – concludeva mio padre, – noi vogliamo
creare una seconda volta l’uomo, a immagine e somiglianza
di un manichino.
Una simile, distratta partecipazione alla vita muove i manichini di
Francesco D’Incecco. “Figure da panottico” anch’essi, quasi soffrono
di una loro tridimensionalità mal digerita, del maldestro assemblaggio
che li ha provvisoriamente chiamati a far mostra di sé, con le illogiche
protuberanze esibite quasi per dimenticanza o per sottolineare la “mistica
consistenza” di un’assenza, di un deficit di senso. Non nascondono
la loro storia; c’è anzi un insistito orgoglio nel conservare traccia
della paccottiglia, se non proprio del pattume, da cui derivano. Non
forme, ma traslati di forme, esitano nel nostro tempo per un attimo,
tanto per sbalordirci della loro capacità di essere e non essere ciò che
vediamo. Ancora trucchi, funambolismi di stile: gli succede di
arrestarsi in pose sconvenienti, di lasciarsi spiare con un sesso turgido
in mano o mentre orinano: ma è un simulacro d’azione, una relazione
provvisoria tra le parti, una semiosi provvisoriamente comica che
s’intreccia con i casi della vita. O della parvenza della vita. La stessa semiosi imperfetta, o provvisoria, ritrovo negli scritti di Francesco. Se
lì è l’eterogenesi dei materiali, qui sono onomatopee fortuite, incidenti
sul cammino del significato, grafemi più che fonemi. Francesco
“griffa” le parole che scrive: non perché ne istituisca la genesi
(autorialità del significante), ma perché le concepisce come se le
incidesse a punta secca; il senso, in altre parole, è una “barba” . Penso
quasi a Fosco Maraini. Ma qui la stessa capacità fabulatoria, si fa
violenta nella chiusa asimmetrica dei versi, meno disposta a rasserenamenti
provvisori, un uso più smagato della lingua, maldisposta alla
tirannia del ritmo.
Artifici, artifici. Questa provvisoria parade di manichini maldestri,
sorpresi in piccole vacanze, disattenti e fuggevoli, assenti da sé, è
letteralmente un circo alla rovescia: l’equilibrismo è nella stasi, non
nel movimento. Anche per Francesco, come in Kantor, gli oggetti
riassumono e consumano la loro vita nell’attesa di uno sguardo che li
liberi e renda possibile un loro ritorno. Ma verso dove, non è dato
saperlo. Non scommetterei, infatti, che per alcuni di loro il paradiso sia
altro che la discarica da cui provengono.
Marcello Gallucci